L’uso delle parole.
Prendo spunto da “L’uso della parola” di Renè Magritte.
Il pittore accosta un’immagine ad una scritta con l’intento
di dipingere in modo semplificato, come fanno i bambini, per spiegare ciò che è
complesso.
L’arte tutta, compresa quella delle parole, ci dice il
pittore, è frutto di un linguaggio convenzionale, che arriva da un
pensiero. Non è un’emozione, nemmeno intesa come negazione o straniamento. Non
è copia della realtà, né realtà stessa.
Non voglio ora addentrarmi nei meandri oscuri del termine
“convenzionale”, mi occupo invece del veicolo insito nelle parole per
comunicare un pensiero. E lo faccio attraversando un problema attuale: la
carenza di attenzione.
Oggi si va dritti al punto, grazie ai social media: 140
caratteri che ci hanno spinto ad estrapolare le parole da un pensiero. Ma non si confonda
questo forzare l’uso delle parole con l’avere il dono della sintesi.
Chi si è cimentato come me, cercando un appiglio di attenzione, sa benissimo dove è stato trascinato con tale moncatura. E mi riferisco al Cyber-bullismo, allo straniamento dal pensiero, all'incapacità di comunicare emozioni.
Magritte è il pioniere del messaggio a 140 caratteri. La
differenza rispetto ai suoi tempi, purtroppo sta nella “diversa” capacità nel pubblico di vedere,
capire, conoscere, criticare. Incapacità dovuta ad un eccesso di sovrastrutture
e ad un difetto di pensiero e di attenzione dell’uomo di oggi.
Oggi i caratteri sono 280, ma il dado è tratto, perché gli
interlocutori vanno da 0 a 100 e più anni.
Nessuno escluso. In ogni dove. A qualsiasi ora. Sempre
connessi!
L’abuso delle parole sistematico ci ha allontanato dal
pensiero creativo.
Il mio intento è
sempre stato quello di forzare la capacità di attenzione, perché bisogna
riflettere su tutte le parole; tutte quelle usate per comporre, e fino alla fine dell’intero pensiero. Come si
arriva a forzare.
Beh, è lo stesso percorso che si usa quando si accentra
parte di una narrazione attorno ad un personaggio secondario per dare risalto a
tutto l’impianto. Ossia, descrivo un evento focalizzando il tema su un oggetto
marginale.
Questa tecnica serve a far riflettere, a fare erompere emozioni, anche negative, a tornare al pensiero/Io. Attenzione: le emozioni negative a cui mi riferisco sono quelle che portano alla critica e non all'insulto fine a se stesso. e qui è doveroso un accenno: l’occhio intercetta le parole che inconsciamente ci disturbano e indipendentemente dall'intero pensiero proposto o non proposto volutamente.
Anch'io ne sono vittima inconsapevole, per questo amo sviare l’attenzione del mio interlocutore, cercando di modificare anche la percezione sulle parole che uso.
Sono sempre stata refrattaria a calarmi nelle formalità
precostituite di testi convenzionali, utili soltanto a quell'interlocutore che non vuole ragionare, né
sulla realtà, né sulle emozioni che scatenano dalla realtà, al di là
dell’attenzione (Il linguaggio convenzionale è volto a soddisfare esclusivamente esigenze pratiche).
Tutto ciò che esce da un formulario può essere sostituito da
un form, da un algoritmo o da qualsiasi cosa che non sviluppa un pensiero e che non ha una percezione basata sulle esperienze.
Invece, è la capacità umana a reagire all'imprevisto, al problema, alla difficoltà, che passa attraverso l’esperienza, gli errori e le parole/pensiero.
E la cornice ha anch'essa un rilievo! Altra storia.
Attivare il pensiero porta sempre alla critica. È inevitabile!
Ma se il sentiero letterario ripido e scosceso mi ha fatto
addentrare in paesaggi di pensiero altrui, suggestivi e indimenticabili, la
fatica n’è valsa la pena. E anche la critica!
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